Persecuzione mortale

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eddie
view post Posted on 8/2/2010, 20:41




Allora, alla mia scuola abbiamo organizzato un progetto di scrittura creativa, che prevede l'elaborazione di romanzi brevi e la pubblicazione in determinati blog da noi creati.Io e il mio gruppo id lavoro abbiamo scritto questo racconto più o meno breve, che si intitola persecuzione mortale, e abbiamo cercato di seguire un'orma horror/fantasy. Il racconto si suddivide in 7 capitoli, ed è lungo ben una quarantina di pagine di word, quindi per agevolarvi metterò qui il link del blog da me creato per pubblicare nel web il racconto, vi prego quindi di non consideraro come spam esterno al circuito di forumcommnity, siccome onn posso prevedere la vostra reazione posto anche tutto il romanzo un capitolo dietro l'altro, lasciando a voi la scelta di leggerlo nel blog, con suddivisione in capitoli e elenco di indicizzazione per andare bene, oppure qua a casa vostra, bene, ecco a voi
PERSECUZIONE MORTALE
link blog:http://pergrandescrittura.blogspot.com/
CAPITOLO I
Una figura incappucciata avvolta nella nebbia avanzava con calma glaciale attraverso un cimitero. Il suo cimitero. Tutto era progettato e costruito in stile gotico, le tombe alquanto spoglie ornate da una miniatura di un Imp alato ( folletto della mitologia nordica). I vari mausolei presenti erano sorretti da colonne di teschi umani cementati l’uno con l’altro che sostenevano architravi adornati da fregi rappresentanti scene macabre, mentre gli spigoli dei cornicioni presentavano statue di demoni intenti a mangiare le viscere di umani morti stecchiti. Occasionalmente, tra una tomba e l’altra, penzolavano i cadaveri degli impiccati, ormai in putrefazione, e altre persone giacevano sparse sul suolo. Tombaroli, avrebbe pensato qualcuno; divertimento, avrebbe detto la figura. Tutto ciò denotava un gusto “particolare”: il gusto della morte. Non perché la misteriosa sagoma avesse una passione per quello che riguarda la morte, ma piuttosto perché era ciò che al mietitore stesso piaceva. Questa è la natura della figura del mantello nero; un’entità immortale il cui unico compito era mietere le anime che la morte reclamava. Non aveva un nome, ma noi lo chiameremo il Mietitore, nome che gli si addice, considerando che il suddetto si aggirava con una falce sempre affilata alla perfezione nonostante avesse mietuto migliaia di anime. Gli occhi erano come tizzoni ardenti nella faccia celata dal cappuccio del mantello, risplendevano di bagliori sinistri che solo le sue vittime avevano visto... e mai potuto raccontare. Il Mietitore avanzò, librandosi a dieci centimetri da terra, verso uno spiazzo erboso privo di tombe. Giunto là, abbassò la sua falce e con un “toc”, che echeggiò lugubremente nel cimitero, la base del manico toccò terra. Subito dopo il terreno sputò delle fiammate che si unirono formando due parole: ”Andrea Terni”; la sua prossima vittima. “Tutto è deciso, ora” pensò Il Mietitore “ma con quale presunzione pensano, questi umani, di salvarsi da me, di salvarsi dalla Morte, vivendo in ville lussuose, guidando auto costose, curandosi nei migliori ospedali” e così proseguì il monologo che l’essere si ripeteva mentalmente ad ogni nuova vittima che appariva nel fuoco. Poi, immaginando di rivolgersi direttamente alla sua preda, sibilò: “Tu, miserabile Andrea, mi sfidi spudoratamente, ti imbarchi in rischi più grandi di te solo per poterti sentire più potente del mio Signore. Per questo morirai, è l’unica cosa che ti spetta.” Proferita questa ineluttabile sentenza di morte, il Mietitore si voltò, facendo svolazzare il nero mantello e spaventando un corvo appollaiato su una lapide, quindi iniziò a camminare verso l'uscita del cimitero. Dopo qualche minuto giunse a un cancello, i cardini di ferro erano fissati a due colonne avvolte da un serpente e costellate di teschi, le due strutture erano unite da un arco a schiena d'asino, sul quale vi erano incise parole a caratteri gotici, scritte in una lingua antica, ora sicuramente caduta nell'oblio, le quali avvertivano che il luogo nel quale si stava entrando apparteneva ai morti, qualunque umano ci entrasse avrebbe fatto una brutta fine. Sotto quest'arco era fissato un enorme cancello di ferro battuto e decorato opportunamente da figure macabre, due serpenti che si incrociavano e avvolgevano nelle loro spire mortali e una creatura bandita da quel luogo: l'uomo; Arrivato dinanzi al cancello, questo si aprì magicamente con un sinistro cigolio che risuonò nel cimitero e il mietitore uscì. Il mietitore imboccò una viottola costeggiata da sculture di creature infernali e umani morti nei modi più diversi. Prima incontrò due scheletri con le mani protese al cielo, nel gesto di venerare qualcuno, poi un umano senza testa con l'addome squartato, dal quale usciva la testa di un mostro non riconoscibile. La terza statua che incrociò era un Gargoyle enorme simile a quelli presenti a Notre Dame, negli occhi aveva due candele che emanavano una luce rossa che dava un tocco ancora più sinistro al luogo e infine giunse alle ultime due statue; due angeli della morte, uno per lato della strada, posti su altrettanti altari. Erano seduti, coperti da un mantello enorme, avevano la testa bassa, le loro falci adagiate sulle rispettive spalle con la lama rivolta all'indietro, le grandi ali aperte in tutta la loro grandezza. Lì il mietitore si fermò a contemplare per l'ennesima volta i due angeli oscuri che facevano la guardia alla casa dopo di loro; una piccola costruzione formata da un corpo centrale a forma di tomba e una torretta senza finestre. Più che una casa la si potrebbe definire tranquillamente una bettola da quanto fosse piccola. Il misterioso personaggio si avviò verso la porta della sua sinistra magione. La porta era in pietra, al centro presentava un cerchio di legno nel quale era incastonato un teschio e il resto della superficie era decorato da una trama di serpi, corpi umani e scheletri. Il misterioso personaggio aprì la porta ed entrò in una sala non eccessivamente grande, ma ben addobbata con oggetti macabri: l'architrave della porta era un arco a schiena d'asino, come quello del cancello, decorato con un bassorilievo raffigurante due falci in corrispondenza delle due spalle dell'arco, sopra di esso vi era uno scheletro senza mani, legato al muro da grosse catene arrugginite. Le pareti laterali erano intervallate da due colonne ciascuna, arricchite dalla presenza di due scheletri inclinati in avanti, quasi volessero aggredire chi fosse a tiro. La superficie di muro tra le colonne presentava delle nicchie nella quale riposavano in teche verticali delle entità demoniache. Il muro opposto all'entrata presentava una porta sorvegliata da due figure, probabilmente scheletri, tanto per cambiare, che indossavano una toga marrone scuro ormai logora, ed erano armati da una falce, con la quale bloccavano la porta che dava sulla stanza al culmine della torretta. Il personaggio incappucciato attraversò la stanza a passi lenti è si fermò dinanzi i due guardiani sopraccitati, fece lampeggiare gli occhi rossi e alzarono le falci, consentendo al mietitore di aprire la porta e di salire per la strettissima scala a chiocciola che gli si presentò. Dopo pochi attimi giunse in una stanzina nella quale vi erano un macabro tavolino, formato da quattro uomini imbalsamati chini, dai volti sconvolti da un'espressione di estremo dolore, che sorreggevano una lapide d'oro. A qualche centimetro dal tavolo c'era una sedia, formata da pezzi di altri uomini, sempre imbalsamati, che fungevano da gambe. Il piano dove sedersi era una trama di ossa, mentre lo schienale era una colonna vertebrale opportunamente modificata in modo che la gabbia toracica fungesse da schienale e ciascuno dei due braccioli era costituito da una coppia di femori. Il mietitore si accomodò, quindi aprì un libro rivestito di pelle umana rinsecchita, girò alcune pagine costituite da parti di tessuto delle interiora essicate e pochi attimi dopo si soffermò su un foglio vuoto, prese una penna e un calamaio pieno di sangue, vi intinse la punta della penna e scrisse delle lettere nel suo registro: dopo pochi attimi la scritta Andrea Terni apparve indelebile tra i nomi di chi aveva un inevitabile destino. La sentenza di morte diventò definitiva. Un'altra vita era segnata e una risata diabolica, colma di odio verso chi osava sfidare il suo padrone, ma allo stesso tempo trapelava felicità poiché stava per uccidere di nuovo, di divertimento, in quanto non aveva intenzione di ucciderlo all'istante, ma aveva intenzione di tormentarlo fino a che non avesse raggiunto la pazzia. Poteva iniziare il suo lavoro: uccidere. Il mietitore si alzò, nei suoi occhi c'era un esplosione di luce rossa che illumino tutta la glabra stanzina; evidentemente aveva da qualcosa da fare.

CAPITOLO II
Andrea Terni era l’archetipo di un “centauro”, il solito biker professionista a cui piace spingere sull’acceleratore; sulla trentina, alto circa un metro e settantacinque, corporatura robusta e muscolosa, spalle larghe, occhi scuri e capelli neri lunghi fino alle spalle e scompigliati, barba incolta, irsuto e abbronzato, chiaramente di provenienza mediterranea. Quel giorno si sentiva un eroe; per l'ennesima volta aveva sfidato la morte partecipando a una gara clandestina tra amici. Il percorso scelto ripercorreva il tracciato del Tourist Trophy che ogni anno, durante le prime settimane di giugno, aveva luogo lì nell'isola di Man. I suoi amici avevano deciso qualche mese prima, quando ancora Andrea abitava a Milano, di percorrere i 61 chilometri più famosi e al contempo più scavezzacollo al mondo tanto per divertirsi, senza contare la posta che si giocavano – la vita. Andrea era venuto al corrente di ciò grazie a un suo amico, il quale lo aveva prontamente avvertito, e la sua reazione era stata altrettanto pronta: iscrizione immediata. Il giorno della gara era circa un mese dopo il suo trasferimento all'isola, trasloco motivato dalla presenza di una moltitudine di amici e biker che stavano programmando una vera e propria serie di gare illegali; si sarebbe quindi lasciato alle spalle l'odiata Milano per trasferirsi inizialmente da alcuni parenti a Dublino, in seguito in una casa sull’isola di Man. Così si era trasferito e, dopo essersi sistemato, aveva preso la moto e provato il tracciato: nonostante qualche piccolo inconveniente con la polizia, gli era piaciuto sin dal primo istante. Tornando al presente, la gara era terminata da un paio d'ore e Andrea si sentiva un dio in terra: aveva spinto la sua Suzuki GSXR 1000 K7 al massimo per tutto il tracciato, la sua “zoccola”, come era solito chiamarla, era una grintosa moto carenata dai colori blu e bianco: “è la moto perfetta”, pensava; forte di un propulsore evoluto a quattro cilindri in linea, sedici valvole, potenza 999 cavalli. Cambio semi-differenziato a sei rapporti, quattro pistoni in lega d’alluminio con mantello ribassato ed alleggerito, in cilindri integrati nel semi carter superiore tipico Sukuzi; bielle in acciaio al cromo-molibdeno, distribuzione a doppi alberi a camme in testa cavi e quattro valvole in titanio per cilindro, disposte con angoli ridotti: le luci d’aspirazione e di scarico appositamente ritoccate: più grandi, con un incremento di volume pari al 15%, così come erano state riviste le valvole di scarico, su consiglio dell’ amico meccanico, che ora vantavano un diametro di 26 mm, per intenderci valutando ad occhio e croce le altre moto arrivavano a 20 mm. Iniettori più compatti, ciascuno dei quali con 12 piccoli fori al posto dei 4 più grandi utilizzati normalmente dalle moto Suzuki, assicuravano una migliore nebulizzazione del carburante. Roger aveva insistito anche per variare la loro angolazione, che ora era di 30° e dirigeva il carburante in prossimità delle luci d’aspirazione, contribuendo alla sensibilità dell’acceleratore. Chi ne capisce è bravo. Qualche ora fa l'aveva spinta al limite, aveva provato a conquistare la prima piazza fino all'ultimo, ma alla fine aveva ottenuto un secondo posto; con il “missile” che aveva davanti non ce n'era proprio per nessuno. Peccato: quel gran figlio di buona donna lo aveva tenuto dietro per tutta la gara, aveva fatto mangiare la polvere a una decina di centauri per un bel quarto d’ora (uno lo aveva fatto cadere e adesso manco sapeva se quel povero disgraziato era vivo o morto), e all’ultimo giro lo passa in curva alla velocità poco raccomandabile di 110 km/h e sfreccia fino alla penultima curva. Andrea era quasi riuscito a riprenderlo; in curva lo passa all’interno, quel pazzo invece accelera e, chissà che razza di moto era, riesce a derapare e contro-tagliargli la strada sfiorando il cordolo interno. Andrea era finito sull’erba, e per evitare una perdita di tempo (e posizioni) lo aveva lasciato andare. Ora guidava ai 140 orari verso casa, incurante del coro di clacson che lo accompagnava e della probabilità che qualche volante della polizia lo inseguisse. Dopo un quarto d'ora di guida rallentò notevolmente e imboccò una stradina privata, percorse oziosamente una decina di metri e giunse in un cortiletto contornato da case bifamiliari. Era notte fonda, la luna illuminava quello spiazzo ghiaioso, tutto era fermo, immobile, silenzioso, tanto da sembrare in una chiesa, o in un cimitero. Andrea attraversò a bassa velocità il cortile, poi si fermò davanti al suo garage, si tolse il casco, scese dalla moto e alzò il basculante. Un sinistro cigolio turbò la calma del luogo, risalì sulla moto e la parcheggiò. Il garage era abbastanza grande e una gran parte di esso; solo la parete opposta all’entrata era occupata da un enorme armadio di ferro, dentro il quale Andrea teneva attrezzi per lavorare alle moto, teli per proteggerle dalla polvere, cd e vecchie musicassette, bottiglie di vino per le grandi occasioni, un pallone da calcio sgonfio, dei cappotti da moto, vari caschi, un jukebox rotto, e altre cianfrusaglie inutili; di fianco alla Suzuki appena parcheggiata c'era un altra moto, una Harley Davidson nera a fiamme, ricoperta da un pesante telo. Uscì dal garage, si diresse verso la porta principale della casa e la aprì. Tutto era buio dentro, così fu costretto controvoglia ad accendere la luce, quanto odiava i luoghi troppo luminosi... La casa era abbastanza grande: appena entrati c'era un corridoio dal quale si articolavano le varie stanze, subito a destra vi era un bagno non molto grande, procedendo c'era un arco a tutto sesto che dava su una stanza abbastanza grande, adibita a cucina e salotto, la parete di destra era occupata da un piano cottura provvisto di varie mensole, portine e cassetti nei quali vi erano riposti alla rinfusa piatti (sporchi), bicchieri, posate, mestoli e quant’altro; di fianco a esso vi era un piccolo frigo del quale si percepiva a prima vista la bombatura; infine, incastrata tra il muro e il frigorifero c'era una piccola dispensa. A poca distanza dalla parete c'era un tavolo coperto di bottiglie di birra vuote, ad occhio più di venti, a sinistra del tavolo un divanetto e una poltrona, a circa tre metri un vecchio televisore 20 pollici, e a metà più o meno un tavolino con altre bottiglie di birra vuote – qua si raggiungeva la decina. La porta opposta all'arco dava su una camera da letto, nella quale erano presenti un letto matrimoniale in disordine, un guardaroba e un comodino anch'esso occupato da una mezza dozzina di bottiglie, rigorosamente vuote, ma oltre ad queste v'erano anche due cose stranamente normali: una sveglia e una abat-jour nera. Inconsuete, visto lo stile di vita del protagonista. I muri erano tappezzati di poster di gruppi heavy metal, tra i quali spiccavano i Manowar e gli Iron Maiden; anche nel guardaroba erano affissi dei poster, ma di famosi motociclisti, tra i quali Mike Hailwood, Valentino Rossi e Troy Bayliss. In fondo al corridoio c'erano altre due porte: una dava su una stanza con all'interno un computer, e uno stereo circondato da cd alla rinfusa sulla destra, un vecchio e logoro biliardo al centro e sulla sinistra un giradischi. Stranamente i dischi erano in perfetto ordine alfabetico, cosa che non si intonava col caos sovrano del resto della casa. Anche qui i muri erano ricoperti da poster di vario genere: musica, motociclismo, calcio (sarà pure lo stereotipo della vita indipendentistica, ma è molto comune per essere fuori dal comune). In questa stanza non vi erano bottiglie di birra vuote. L'ultima stanza era insonorizzata, dentro vi erano amplificatori, una chitarra, vari accessori musicali, libri di musica, una batteria e un pianoforte a muro, segno che il proprietario era anche un musicista. Chiunque vedesse la casa qui descritta potrebbe farsi un'idea pressoché esatta della personalità del nostro personaggio: un uomo disordinato, pigro e casinista. L'ultimo aggettivo in particolare, è molto azzeccato: infatti, dopo aver riposto il suo giubbotto in pelle, Andrea si avviò al frigorifero, stappò una birra e, sorseggiandola tranquillamente si diresse verso lo stereo; quindi pescò un cd dal mucchio e lo infilò nel lettore. Alzò a tre quarti il volume (diciamo 90 db): le potenti casse iniziarono a diffondere N.I.B. dei Black Sabbath a volume altissimo, tant'è che i vetri tremavano. Puntualmente il campanello suonò: i vicini erano arrivati a fargli visita; Andrea pensò cosa volessero questi scocciatori, accompagnando il pensiero con insulti, e si diresse verso la porta. Appena l'apri vide la faccia sonnolenta e stralunata dell'odiato vicino, il quale non fece tempo ad aprir bocca che il fastidioso padrone di casa gli aveva già sbattuto la porta in faccia, mandandolo a farsi benedire. Tornato allo stereo, alzo il volume al massimo e sorrise, sfidare così beffardamente i suoi vicini gli piaceva da morire. Ad un tratto squillò il telefono; Andrea alzò la cornetta e sentì la voce familiare di Timothy, il proprietario di un pub fuori città dove si recava spesso il fine settimana: era una figura allegra, ironica, con un modo di parlare molto grezzo. Timothy aveva una voce squillante e una parlantina fluida ed era un amico vero del quale ci si poteva sempre fidare. Senza aspettare che Andrea rispondesse, ruppe gli indugi con un "Come va la vita? Ma come fai a non essere sordo con questo volume in casa? Ecco perché non vorrei mai abitare vicino a te. Anche se a te non ne frega niente, la gente a quest'ora dorme. Comunque volevo avvertirti che tra poco viene qua un gruppo a suonare, ci sarà molta gente perchè questi sono molto seguiti, e poi agli amici come te un boccale lo offro sempre! Quindi che fai ci sei o no? Scusa del ritardo, avrei voluto avvertirti prima ma non eri a casa evidentemente” e Andrea rispose “Ero fuori a correre infatti, comunque va bene, sono li tra una mezz’oretta, il tempo di disturbare ancora un po’ i vicini.” ringhiò. “Ma su dai, lasciali in pace poveretti, ma ti sembra il momento di metterti a fare baccano?” e poi scherzando aggiunse “guarda che i lavoratori si alzano presto la mattina, non sono come te che gironzoli per casa ubriacandoti. Comunque a dopo allora, mi raccomando, non ucciderti mentre cerchi di arrivare qua ai duecento orari” e riattaccò. Andrea ripose la cornetta e si diresse all'attaccapanni; divertito pensò a quanto si sarebbe divertito da Timothy. Quindi indossò il giubbotto e, incurante di aver lasciato lo stereo acceso, uscì di casa, dirigendosi in garage. Arrivato davanti il basculante si accorse che nonostante ci fosse il volume al massimo nel cortile regnava un sinistro silenzio di tomba. Ritornò alla porta per controllare, la aprì e fu investito da una letterale onda sonora. Ma quando la richiuse il silenzio tornò ad essere sovrano. Poi concentrò la sua attenzione nel cercare le chiavi della serratura. Una volta tirate fuori sentì un fruscio tra gli alberi. Si girò di scatto; un corvo appollaiato su un ramo si era alzato in volo gracchiando, e ora se ne andava. Andrea scosse la testa e infilò la chiave nella serratura, ma proprio quando la stava girando questa si tolse e gli scivolò di mano, finendo tra i sassi. Tra una miriade di parolacce il protagonista si chinò per raccoglierla, quando si accorse di essere osservato: tra i cespugli alla fine del cortiletto si era mosso qualcosa: subito notò due puntini rossi che poi, nell’arco di quattro secondi, divennero sempre più luminosi, improvvisamente una fitta nebbiolina invase il cortile. Aleggiando a circa cinque centimetri da terra, una figura umana non ben definita, incappucciata e armata di falce comparì innanzi a lui. Sembrava che le sue dimensioni aumentassero continuamente e ad un certo punto ad Andrea sembrò di essere intrappolato fra il garage e quella figura, che incombeva su di lui, i suoi occhi lampeggiarono e la falce si alzò al cielo. Dopo pochi, lunghissimi istanti il Mietitore la calò, la sua vittima vedeva l’acuminata taglia teste avvicinarsi al rallentatore, ma nell’istante in cui sarebbe dovuto morire, tutto svanì nel nulla. La musica tornò a farsi sentire, ma Andrea rimase pietrificato; era a terra e sudava come se fosse in una sauna, tanto che si dovette togliere il giubbotto. Dopo un minuto buono decise che gli erano tornate le forze: si asciugò il sudore e tentò di aprire il garage, cercando di dare una spiegazione logica all’accaduto, ma non ne trovò. Montò sopra la sua Harley Davidson, la accese e partì alla volta del locale. Accelerando come un pazzo, imboccò una strada fra i campi. Dopo un minuto era già ai centocinquanta orari, ma non si stava affatto divertendo come al solito. L'incontro con quell'entità lo aveva distrutto psicologicamente, doveva tirarsi su, e una birra da Timothy sarebbe stata un buon antidoto all’accaduto. Pensando al boccale pieno dell'amato liquido giallo con le bollicine svoltò alla prima strada a destra e accelerò vigorosamente, perdendosi nella notte. Dopo dieci minuti di viaggio era quasi arrivato, tra poco avrebbe dovuto girare ancora a destra e percorrere un tratto di strada di campagna rettilineo che lo avrebbe portato al locale, ma qualcosa lo distraeva, aveva l'impressione di non essere solo. Guardò alle sue spalle però non vide niente di interessante, ma quando girò la testa vide, all’incirca a mezzo chilometro da lui, una figura grigio scuro, con un bagliore sopra la spalla sinistra. Percorse un centinaio di metri, e iniziò a definire il tizio: un mantello grigio e una falce sulla spalla. Si chiese se la figura lo stava aspettando, se era un imboscata. Il mietitore diede una risposta come gli piace: levò un braccio, e ne uscì un globo azzurro infuocato. Lo lanciò alla volta di Andrea e questi, dopo aver seguito la sua traiettoria per tre secondi, non vide più nulla. Gli sembrò di cadere dalla moto come in sogno, quando sembra di trovarsi su una parete diagonale e di star cadendo. Tuttavia, poco dopo si rese conto di essere ancora in sella, e di non vedere più niente se non una nebbia fitta, impenetrabile, che come una cappa avvolgeva tutto e tutti tranne la strada, che comunque Andrea non percepiva. Il respiro gli si fece pesante, il suo cuore iniziò a battere forte, una goccia di sudore gli colò da una tempia. Davanti a lui, a una distanza indefinita si stagliava una figura confusa nella nebbia, dapprima fu solo una macchia di color leggermente più scuro rispetto lo sfondo, poi iniziò a ingrandirsi e a prendere forma. “Ancora lui!” pensò. Dopo qualche istante Andrea vide quegli occhi rossi e spietati e capì che era giunta la sua ora. Istintivamente accelerò, nel nulla che era la strada per Andrea in quel momento, ma la figura lo aveva braccato. Si faceva sempre più grande, una risata diabolica invase la sua mente per un istante facendolo urlare: la figura si ingigantiva, ora il motociclista la vedeva dappertutto. Davanti, dietro, anche ai lati vedeva quegli occhi rossi, guardandosi intorno vedeva solo la morte. Stava per morire, ma quando tutte le speranze sembravano perse vide un bagliore azzurro provenire dall'alto, questo si avvicinava. “Sono venuti a salvarmi” pensò. Continuò a fissare tale luce, ma la figura se ne accorse e si volse al presunto soccorso. I due occhi emanarono una luce rosse intensissima, quasi fossero due fari e Andrea si sentì sprofondare. Quella luce azzurra non erano alleati o qualcuno disposto ad aiutare, bensì il bagliore del metallo di un'arma dannata; la falce della morte. Questa venne calata con lentezza esasperante: era a due centimetri dal collo, e non si fermava. Sembrava invece che il tempo fosse rallentato e Andrea osservava la lama che lo avrebbe decapitato. Invece di colpire il collo tagliò la spalla, sprofondando di mezzo centimetro nella carne e magicamente svanì. La figura si dissolse e nell’arco di un secondo tutto ritornò alla normalità, i grilli a frinire, l’erba a smuoversi al freddo vento notturno, le civette a cantare quel triste e ripetitivo spartito che intonano di solito. Andrea ansimava, era spaventato, senza pensare lasciò l'acceleratore, e la moto si arrestò lentamente. Nella pazzia di quei momenti aveva quasi bruciato il motore, ed era finito in mezzo la campagna. Si fermò di traverso in mezzo alla strada sterrata, si tolse il casco e si asciugò la fronte madida di sudore ghiacciato. Si chiese se fosse pazzo o se fosse stata un allucinazione, per poi chiedersi dove fosse finito. Intorno a lui si stendevano campi. Aveva indubbiamente superato la svolta, forse un po’ troppo. Fece per riaccendere la moto quando vide qualcosa di strano sotto il serbatoio. Scese e assicurò la moto sul cavalletto, dopodiché si chino, ma perse l'equilibrio e cadde di lato, vicino alla marmitta. notò che leva del freno era sporca di sangue, subito dopo senti un fastidio alla spalla, il giubbotto era imbevuto di sangue. “Lo sapevo che non dovevo lasciare la leva spezzata, ora ci sono finito sopra e mi sono tagliato, ma guarda che giornata del … ”. Imprecando contro se stesso e qualunque cosa gli venisse in mente, pure le allucinazioni con falce, accese la moto e partì a tutta velocità alla volta del bar. Una figura ammantata si ergeva, di nuovo, in mezzo alla strada, distante dalla sua vittima, scrutandola mentre essa si illudeva che non fosse accaduto niente, osservandola in ogni suo movimento, la sfiniva senza che lui se ne accorgesse. “Non la ucciderò all’istante, carpirò le cose a cui tiene, e lo priverò. Lo distruggerò mentalmente, la sua esistenza diventerà vuota, orribile e a quel punto, solo a quel punto, eseguirò il mio compitino. Mi godrò ogni istante di sofferenza, di dolore, di paura della mia vittima. Miserabile mortale, io sto solo giocando e a me piace giocare. Piace cosi tanto che per me il gioco è bello se dura. Non troppo, altrimenti diventa monotono e quando lo sarà tu morirai. E io giocherò con qualcun altro a cui…” La figura ammantata fece un altro monologo che ripeteva ogni volta che trovava qualcuno con cui si sarebbe divertito a suo modo. Ora guardava la sua preda svanire nella nebbia e pensava che avrebbe avuto da fare. Lo avrebbe lasciato in pace solo per qualche tempo, dopo la tortura sarebbe iniziata nuovamente, e questa volta sarebbe stata terribile e, secondo i suoi gusti, spassosa.

CAPITOLO III
Avvicinandosi al locale, Andrea provò un senso di velata inquietudine, o perlomeno freddo. Così scese dalla moto e guardò a ciò che lo circondava. Se volevano far sembrare il bar un covo di assatanati c’erano riusciti: di fianco al locale si estendevano campi già mietuti, con un alone di nebbia a disturbarne la vista, e la terra che appariva nera come la notte, risaltava rispetto alle alberi stagliati contro la luna in lontananza, dove il sentiero si perdeva nel bosco, un centinaio di metri più avanti. In cielo non si vedeva neanche una stella, solo nubi vagamente definite dalla luna, nella cui moltitudine si individuava la sagoma della stessa, che si presentava come una lugubre falce latrice di morte. In quel momento Andrea si sentì letteralmente annientato da ciò che vedeva: gli sembrò che un cumulo di nubi, o forse nebbia, quasi indefinibile nell’oscurità, si concentrasse a formare una figura incappucciata, che incombeva dal cielo. Ma fu un istante. Il tempo di smontare e la figura scomparve. Andrea si riprese, sentiva la paura ma, insultandosi per le sue idee stupide, finse di cambiare idea. Come per confermare ciò che Andrea preferiva non pensare, sentì un rumore assai strano. Un lamento basso, un urlo lugubre, che sembrava venire dalla terra e dall’aria contemporaneamente, un grido che sapeva di tristezza e di morte.. Andrea ebbe un brivido lungo la colonna vertebrale, poi vide un ombra alla sua destra; si voltò e scorse un gatto nero camminare fuori dalla nebbia e soffiargli contro. “Se non è un segno questo…” si fece forza: “Questo è un normalissimo gatto, l’ululato era causato dal vento gli alberi e tu ti stai perdendo un concerto”. Prese una salubre boccata di aria notturna a pieni polmoni, e si avviò a grandi passi al locale. Attraversò il parcheggio popolato di Harley-Davidson, marchio preferito dagli avventori del locale. Il bar di Timothy era un edificio basso, al massimo quattro metri in altezza, costruito con pietra grezza come le abitazioni britanniche pre-romane, circondato da tre alberi sempreverdi, o meglio sempreneri, vista l’atmosfera. Il locale in sé sembrava a posto, ma “sembrava” è il termine più adatto. L’insegna pendeva anonima dalla porta. C’era il nome del bar, “Le Antiche Rune”, seguito da simboli in verde chiaro non meglio definibili. La porta era evidentemente stata rotta più volte, con poco raffinate travi inchiodate come capitava. Spinse e la porta si aprì, facendo un “crac”. Lo sbalzo termico fu tanto improvviso quanto piacevole: dentro al locale si respirava un aria allegra accompagnata da un forte odore di alcool; c’era gente seduta agli sgabelli davanti al bancone, che rideva e scherzava con certi frasari non riportabili. Probabilmente nessuno dentro al locale avrebbe potuto passare un alcol test, ma l’atmosfera era rilassata. L’interno consisteva in un locale rettangolare arredato in maniera “originale”. Due colonne formate da teschi (finti) impilati con luci dorate dagli occhi delimitavano l’altra estremità del locale. Sulla destra della parete di fondo c’era una porta; sulla sinistra un caminetto in pietra ospitava un fuoco che crepitava allegro. Andrea aveva già dimenticato la scena del parcheggio e percorse il resto della stanza a lui familiare: sulla parete destra troneggiava un lungo scaffale a vari piani ricolmo di vari boccali di birra da collezione, di varie foggie, colori, epoche, e sopra di esse tre falci adornate di pendenti lugubri. “Timothy non si smentisce mai” pensò, il centro del locale era occupato da cinque tavoli sommersi di cibo, bevande, sigarette e soldi, che gli avventori si giocavano a poker mentre bevevano e parlavano, a volte entrambe le cose contemporaneamente. A volte il locale era attraversato da sonore bestemmie a seguito di mani di poker perdute, ma nessuno ci faceva caso. Poi, con la coda dell’occhio, Andrea vide alla sua sinistra un lembo di mantello nero, e la lama di una falce. Tutto scomparve come nei film quando il protagonista viene “estraniato” dal mondo, e sente i rumori affievolirsi poco a poco, e il colore del luogo cambia e diventa prima azzurrognolo, poi blu scuro, e alla fine rimangono solo il protagonista e il nemico. Andrea sentì il cuore accelerare, il sangue pulsava, lo sentiva fluire copioso alle braccia, e queste farsi calde, e poi iniziare a sudare. Sentì una goccia di sudore colargli dalla tempia destra, e il passaggio sulla guancia gli dette fastidio, ma non si mosse: era pietrificato. Il cuore accelerava sempre di più, ora lo sentiva distintamente martellargli nel petto. Con un urlo si voltò verso sinistra. Tutti gli avventori si voltarono a guardarlo, il barista smise di lucidare i boccali; ogni rumore, tranne il crepitio del fuoco, cessò e Andrea vide il Mietitore. Era la figura che aveva visto nella nebbia, era venuto a prenderlo; vestita di una toga nero pece fino a terra, svolazzante nonostante la completa assenza di vento, le maniche larghe, le mani scheletriche, che uscivano a stringere una falce che parlava da sola per la creatura muta, la faccia indistinta sotto il cappuccio; ma gli occhi… gli occhi di brace, che rilucevano della vita che scaturiva dalla persona che la creatura stava per uccidere, infernali, profondi come… gli occhi di un pupazzo. “Bello vero?” La voce di Timothy lo riportò alla realtà, rompendo il silenzio nel locale. Andrea riprese a respirare, e scoprì di aver trattenuto il respiro per parecchio, perché dovette prendere tre o quattro boccate d’aria prima di parlare: ”E un pupazzo?” “Si, non mi dire che non l’avevi capito. Mi hai spaventato tutto il locale. E’ un normale pupazzo” replicò offeso il barista. “Ma da dove è uscito?”. “L’ho comprato oggi”. Il locale era tornato alla normalità. Andrea si aggrappò alla colonna dietro di lui, ancora scioccato, e riguardò il pupazzo. Gli occhi erano lampadine, ma adesso erano opache. Provò ad avvicinarsi ma non vedette il suo riflesso negli occhi del pupazzo. Ma allora cos’era stato il luccichio che aveva visto? Quel bagliore… “Stai bene, Andrea?”. Andrea si girò verso il bancone nella parete sinistra del locale. Dietro a questo, Timothy il barista, detto Timo, scrutava il suo locale. Dietro a lui uno scaffale delle bevande più disparate faceva bella mostra di sé. Timo era sulla cinquantina, di carnagione più scura, come per far risaltare le sue origini italiane, abbastanza irsuto, ma con una faccia simpatica: Grandi baffoni conferivano bonarietà ad una faccia allegra ma vecchia, rughe che increspavano la fronte sopra le folte sopracciglia del barista. Il naso era a patata, gli occhi erano azzurri, ma caldi. Era quasi pelato, solo un cerchio di capelli all’altezza delle orecchie testimoniava che li avesse mai avuti. La corporatura era grassa come la faccia. Andrea non lo aveva mai visto senza il suo grembiule bianco sporcato di sugo. Il barista piantò le grasse mani sul bancone e si rivolse ad Andrea: ”Pensi di perderti il concerto? Piantala di bighellonare e vai a goderti lo spettacolo”. Andrea attraversò il locale e imboccò la porta dall’altra parte del locale. Una corta scaletta in pietra conduceva in una stanza sotterranea, sempre in pietra, con i muri erano abbastanza larghi per farci passare due persone di fianco. Subito dopo la scala c’era una curva verso destra. Passando, Andrea non potè fare a meno di ammirare i soliti quadri sulla parete. Un uomo sgozzato, che giaceva su di un letto color porpora, con il collo tagliato in profondità, e il sangue che ne sgorgava che colava sul pavimento. Le orbite erano vuote, e la lingua usciva dalla bocca protesa in una smorfia di dolore. Nel quadro successivo una piazza medioevale in bianco e nero presentava tre patiboli con altrettanti impiccati penzolanti, e la gente in cerchio che li guardava. Sullo sfondo la cinta muraria del castello. Nell’ultimo quadro Andrea rivide la figura apparitagli fuori dal locale: una figura avvolta in una toga con cappuccio nera, con la falce sulle spalle e gli occhi di brace, che si aggirava per un cimitero in una notte senza luna, e una nebbia bassa che faceva risaltare le lapidi che la superavano. Andrea distolse lo sguardo e percorse il corridoio mal illuminato, che presentava resti di armature medioevali ai lati. Osservando una di queste, Andrea si bloccò sul posto: gli era parso di vedere, attraverso la grata che proteggeva gli occhi di un’armatura, due occhi rossi lampeggiare dentro di essa. Si stropicciò gli occhi, e la visione scomparve. Riprese a camminare, ma con maggior cautela verso le armature. Sul fondo del corridoio il suo occhio esperto del luogo indovinò la sagoma della porta-grata che conduceva allo scantinato. Non era mai stato lì, nessuno che conoscesse era mai stato lì, neanche Timo. Dopo un po’ si aprivano su pareti opposte due porte che conducevano ad altrettante stanze insonorizzate adibite a concerti. Da lì si vedeva distintamente la grata, nonostante l’oscurità di quel lato del corridoio. Andrea provò l’istinto di avvicinarsi, ma non lo fece. Invece imboccò la porta alla sua sinistra. Entrò in un ampio salone, di forma rettangolare, nel quale vi erano dei tavoli lunghi, dove si ubriacavano e brindavano decine di persone. Su una parete c’era un palco con la strumentazione per suonare e una band si stava preparando. Le pareti del grande salone erano adornate con scaffali dei quali alcuni contenevano collezioni di antichi boccali di birra, in altri erano riposti tondi di legno simili a piatti, ma raffiguranti emblemi antichi, prevalentemente arazzi medioevali. C’era poi una libreria contenente libri sulla produzione della birra, sulla storia della musica, anche molto vecchi. Gli scaffali erano intervallati da manichini vestiti con gli abiti più strani: alcuni con maglie di ferro, altri con toghe nere con cappuccio, altri ancora legati al muro da pesanti catene. Nel luogo aleggiava un odore di fumo e sudore, che impregnava ogni cosa; il fumo delle innumerevoli sigarette consumate formava una nebbiolina che irritava gli occhi. Andrea si inoltrò tra i tavoli tossendo, e scomparve nella “nebbiolina” che lo circondava. Dopo qualche minuto era in compagnia di tre uomini tarchiati e robusti, e un boccale di Guinness. Uno portava i capelli e la barba lunghi, in disordine, parlava in modo molto volgare, con valanghe di parolacce, bestemmie e termini dialettali. Si faceva chiamare Rud, ed era anche lui, come Andrea, di origini italiane, benché Andrea non sapesse di dove precisamente. C’era poi Marco, un altro italiano, molto grosso ma non altissimo, con una bella “piazza” in mezzo ai capelli. Parlava anche lui nel dialetto del luogo, molto disinibito, ed era una mitragliatrice di parolacce, oltre che il maggior intenditore di bestemmie dell’intero locale. Brandiva due boccali di birra da cui beveva contemporaneamente, e nel tavolo davanti a lui ce n’erano altri tre vuoti. Era conosciuto da tutti come Big Bomb, per via della sua abitudine di alzare l’inseparabile boccale, che lo stesso Marco sosteneva essere antico, e salutare tutti con un grido quando entrava in una stanza. Dell’altro figuro con lui, neppure Andrea sapeva molto: era un uomo non molto alto, dai capelli scuri e unti ricadenti sul viso. Era un tipo riservato, parlava poco e si faceva sempre gli affari suoi. Portava sempre un giubbotto cosparso di punte di ferro; le braccia erano altresì ricoperte di polsini di cuoio, con borchie appuntite. Vestiva in ogni occasione abiti neri, e per questo tutti lo chiamavano The Silent Black. Qualche volta Big Bomb gli aveva rivolto la parola, e sosteneva di averlo visto andare a concerti Black Metal e partecipare a riti satanici; inoltre giravano voci che avesse commesso non pochi omicidi, macellando le sue vittime. Andrea stava per rivolgergli la parola quando un celeberrimo riff di chitarra elettrica lo fece rizzare in pedi e dopo due secondi era nel bel mezzo di un pogo: un gruppo heavy metal aveva iniziato a suonare “Crazy Train” di Ozzy Osbourne, e il pubblico aveva reagito di conseguenza. Dato che anche Big Bomb si era lanciato al pogo lui non poteva far altro che finire di scolarsi il suo boccale di birra e andare a fare a spallate con gli altri sotto il palco. Dopo “Crazy Train” seguirono “N.I.B”, “Paranoid” e “Iron man” dei Black Sabbath, poi “Breaking the law” dei Judas Priest, “Killers”, “Iron Maiden” e the “Number of the Beast” degli Iron Maiden e infine “Starway to Heaven” dei Led Zeppelin. Alla fine del concerto Andrea era ubriaco, aveva una spalla dolorante, causata da una spallata contro Big Bomb, ed era molto stanco, ma si era divertito un mondo. Dopo essersi scolato l’ennesimo boccale di birra salutò Big Bomb, che gli diede una manata sull’altra spalla, provocandogli altri dolori dei quali avrebbe volentieri fatto a meno, poi saluto The Silent Black, ma come risposta non ottenne altro che un minimo movimento dei capelli neri, definiti “shampoofobici” da alcuni avventori, infine salutò Timothy, il resto dei presenti e si congedò. Quando uscì dal locale rabbrividì per il freddo, accese la sua Harley Davidson e partì alla volta di casa sua a velocità folle. Dopo mezz’ora di viaggio giunse a casa, ma nel cortiletto fu costretto a una frenata e derapata da film in quanto un enorme pezzo di ferro piatto gli si era parato davanti, il centauro bestemmio e poi guardò in terra; era quel che restava del basculante del suo garage. Confuso guardò verso il suo garage e gli caddero le braccia: il basculante era stato scardinato brutalmente, l’interno era un disastro: la Suzuki era in pezzi, gli scaffali rovesciati a terra e quello che c’era all’interno riversato a terra in cocci, ogni cosa all’interno era annerita e c’era odore di fumo. Il suo garage era andato a fuoco, e su un muro vi era una scritta a caratteri cubitali scritta con un inchiostro alquanto inusuale: il sangue. Vi era scritto un beffardo “A presto”.

CAPITOLO IV
I passi si fecero sempre più vicini. All’improvviso calò il silenzio. “Sono finito” pensò Andrea fissando con occhi sbarrati la parete del garage. Lentamente si girò, immaginando di vedere subito qualcosa di sinistro e misterioso; e gli tornò in mente quella figura incappucciata che credeva di avere solo immaginato, prima nello stesso garage e poi per strada, quando invece l’entità era vera e lo voleva uccidere. La rotazione prese circa 10 secondi, tanto era il terrore in Andrea. Quando ebbe finito, vide qualcosa simile ad un cofano, poi luce e dolore agli occhi: un faro puntato su di lui lo accecò per qualche momento, e solo quando il dolore fu scemato riuscì a scorgere un figura in controluce, ma questa volta fortunatamente niente toga e cappuccio: Andrea riuscì a distinguere i contorni grassocci di un poliziotto. Due volanti lo avevano raggiunto a casa, credeva che lo avessero braccato per eccesso di velocità, ma uno dei poliziotti, sulla quarantina, gli chiese a sorpresa: ”Come si chiama? Sta bene? Ha dei sospetti su chi può essere l’autore di questo casino?". Andrea non rispose, lo fissò con un espressione inebetita, poi si mise le mani fra i capelli e si guardò attorno per la centesima volta, per assicurarsi che non stesse sognando. Era tutto vero: il Mietitore lo stava illudendo che fosse un sogno quando invece l'unica cosa che poteva sognare era di non fare una morte dolorosa, beninteso, solo sognare. Il poliziotto gli ricordò che non era solo: gli disse le generalità e il suo compito, poi gli chiese quale fosse il suo nome, ma come risposta non ottenne altro che uno sguardo vuoto. Andrea stava impazzendo. Il poliziotto provò a cavargli qualcosa di bocca, ma alla fine si arrese a portarlo in centrale. Lo sfortunato non si oppose al poliziotto mentre esso lo introduceva nella volante, quindi essa partì alla volta della centrale di polizia. L'auto era confortevole, l’ambiente ovattato; in essa vi erano due poliziotti seduti nei sedili davanti, uno guidava, l'altro armeggiava con una radio portatile alla ricerca di una canzone decente, alla fine non la trovò e spense nervoso il suo apparecchio. Erano seguiti da una seconda volante, e in quarto d'ora giunsero alla centrale di polizia, circa a 20 km dalla casa del protagonista. Il commissario era un certo Denn, un uomo grasso sulla sessantina, dagli occhi piccoli e azzurri, la barba di tre giorni, un sigaro in bocca e un aria mesta. Era sprofondato nella sua comoda poltrona blu, guardava fuori dalla finestra e fumava il suo sigaro, pensando alla sua vita inutile. Non aveva mai fatto niente di buono; rimuginava sui suoi errori e poi scacciava i pensieri scrollando la testa, salvo poi ritornare a ripensarci entro un minuto in media. La sua vita era così, il lavoro lo faceva fare ai suoi subordinati, lui sedeva sempre nella sua poltrona blu affrontando più crisi di coscienza che casi polizieschi.

La moglie l’aveva lasciato il mese prima, portando con se i due figli; il caso in tribunale l’aveva dissanguato finanziariamente, e ora il conto in banca rasentava il migliaio di dollari; e come se non bastasse si era dato all’alcool per ovviare ai problemi, compromettendo la sua posizione di commissario. “Mi licenzieranno da un momento all’altro” era in cima alla hit compilation dei suoi pensieri ordinari. Ora c’è da immaginare quanto una persona di questo tipo possa interessarsi del danneggiamento del garage di un motociclista a 20 km da lì alle 23:19 di notte. Stava già crollando per il sonno, pronto a staccare dal lavoro da un momento all’altro, quando l’agente Johnson irruppe nell’ufficio: “Brava persona, l’agente Johnson, solo un po’ dannatamente intrusivo!” pensò Denn. L’agente gli spiegò l’avvenuto, e il commissario accettò –molto- di malavoglia di interloquire con Andrea. Come già preannunciato, Andrea si ritrovò fuori dall’ufficio del commissario in meno di cinque minuti. L’agente Johnson gli chiese l’esito della discussione, e la risposta fu uno sguardo rassegnato; così lo caricò sulla volante e lo riportò a casa. Di nuovo nella vettura ovattata, con due agenti nei sedili anteriori, Andrea si augurò di cuore il licenziamento del commissario: “Come si può ignorare che c’è un pazzo che va in giro a squarciare basculanti in ferro spessi 10 cm e dopo averli divelti squarcia altresì tutte le pareti del malcapitato garage?! Ma più che altro, l’unica arma capace di questo è una lama, di spada o…” e qui un brivido lo percorse dalla nuca fin sotto la vita “di falce...”. Gli tornò in mente l’immagine della figura incappucciata. Chiuse gli occhi: “Concentrati! Non esiste!”; li riaprì ed era scomparso. “Amico mio, hai bevuto troppo” pensò, mentre nella vettura si spandevano le note graffianti del Led Zeppelin, che messe insieme davano Immigrant Song. “Finalmente qualcosa di decente” esclamò il poliziotto di sinistra. Andrea si distese e ascoltò. Finita la canzone, si accorse che avevano sbagliato strada ad un bivio; si volse per guardare il cartello da dietro ma, oltre il vetro posteriore, vide due occhi rossi. “NOOOOO!!!!” pensò. Si voltò spasmodicamente e si trovò a pochi centimetri dal volto sfigurato di uno dei due poliziotti che giaceva riverso sul sedile davanti a quello di Andrea. Non aveva più il globo oculare dell’occhio destro: da lì sgorgava sangue a fiotti; la bocca era attraversata in profondità da uno squarcio che arrivava al mento, e la parte superiore della testa era mozzata: si poteva vedere il cervello. Mentre Andrea impallidiva all’istante, il globo oculare sinistro si staccò e cadde sulle sue gambe. Dell’altro poliziotto non c’erano tracce. Andrea vomitò sul cadavere per una decina di secondi, poi vide il globo sulle gambe che lo fissava muovendo l’iride. Con un balzo disumano, il protagonista uscì dalla portiera destra, rotolando sull’erba. La macchina andò a schiantarsi contro un palo della luce poco più avanti. Andrea vomitò di nuovo, poi scivolò sul vomitato e cadde in ginocchio, piangendo. “Bastaaaa!!!” urlò, poi riprese a singhiozzare nel buio. “No. Non ancora.”. Andrea ebbe un fremito freddo per tutto il corpo, e rabbrividì. Dal buio emerse l’altro poliziotto: “Oh, Dio sia lodato! Lei è vivo” esclamò Andrea. Poi il poliziotto perse la testa, che rotolò a sinistra. “Oh! Che peccato. È morto…” la voce spettrale si propagò tutto d’intorno. “Nooooo! Tu non esisti!”. “Io non credo…” detto ciò, Il Mietitore si fece avanti, e Andrea vide ancora la figura incappucciata del garage, apparsa nel cielo, nella strada; ma reale, non più una promanazione di essa. E svenne. Rinvenì che era ancora buio, e guardò il cielo: la luna era diventata rossa. Rosso sangue, acceso; poi qualcosa si distaccò dalla luna, una sagoma strana. Andrea iniziò a scappare, ma notò che non c’era più l’auto vicino a lui; si guardò intorno in cerca di un nascondiglio, ma realizzò di essere in aperta campagna: “No, ero sicuro di essere vicino ad un casolare.” pensò; poi si voltò di nuovo verso il cielo, e vide che la sagoma si stava avvicinando, rossa sul nero cielo della notte. E Andrea iniziò a definirla: sembrava uno spettro, senza gambe, bensì un lungo abito che sembrava non avere fine. Ma la figura non aveva una faccia, anzi si, ora la figura stava acquistando un volto, ma Andrea non riusciva a vederlo, per quanto lo fissasse. E infine lo vide, e si svegliò. Il protagonista si ritrovò ansimante, mentre un gallo lì vicino annunciava l’alba; e con la luce diede un occhiata d’intorno: riconobbe la strada, il bivio lì a 10 metri, la macchina a 15 alla sua destra, e il casolare. “Era un sogno”; d’altronde, non ricordava neanche più il volto. Poi tentò di ricostruire: ricordò il bivio, lui che si voltava e vedeva gli occhi, poi qualcuno morto e lui che scendeva rotolando, poi ancora la figura incappucciata, e il sogno. “Forse ho sognato anche il tizio col cappuccio. Si alzò barcollando, puntandosi con il braccio destro; e si avvicinò alla macchina. Poi ci ripensò; se avesse visto il cadavere di nuovo avrebbe vomitato di certo, così si frugò nelle tasche alla ricerca di un cellulare per chiamare l’ambulanza. Non lo trovò, pertanto gli toccò farsi una buona decina di chilometri a piedi fino a casa. Non si fermò in qualche casa per chiamare l’ambulanza; gli importava solo arrivare al suo domicilio. Giunse lì dopo due ore, e si buttò sul letto ancora sporco di fango e quant’altro, e dormì. Si risvegliò che imbruniva: aveva fatto un altro incubo; ancora cadaveri. “E’ un ossessione!” pensò mentre accendeva il televisore; poi fece zapping finché trovò un telegiornale locale. “Sono stati trovati un ora fa, prossimi ad una volante schiantata su di un palo, due agenti trucidati in maniera disumana. Non sono ancora state avanzate ipotesi su chi…” Andrea spense la televisione, e si diresse in garage. Trovò la moto ancora intatta, unica superstite della devastazione che regnava nel garage. Si accorse di vacillare, mentre gli si approssimava. “Sarà la stanchezza…” pensò; ma d’altra parte aveva appena dormito. “Pazienza. Non mi impedirà di guidare fino al pub”. Così detto montò in sella, girò la moto e diede gas. Era circa a metà strada, quando sentì una voce nella sua mente:”Ho fatto bene a sceglierti. Non ti fermi mai, è uno spasso.”. Andrea si guardò a destra e a sinistra, ma non vide niente; ma quando riprese a guardare la strada, si accorse che questa non c’era più. E neanche la terra d’intorno: era tutto sparito per fare posto ad un nero cupo, presente dappertutto. Non pareva neanche di poggiare su un piano, tanto era uniforme questo paesaggio nero. Alla vista di questo, Andrea rallentò; sapeva quello che stava per succedere, e cercò di prepararsi, ma non servì a niente: Il Mietitore gli penetrò la mente e la invase con la sua risata diabolica, e dopo un po’ Andrea iniziò ad avere incubi di persone deformi impiccate e trucidate, e migliaia di occhi di brace che lo fissavano da ogni parte. Si mise le mani tra i capelli, e cadde in ginocchio dal dolore. Improvvisamente si rialzò urlando: “Basta! Scompari!”. E tutto si dissolse, e il protagonista si trovò solo, a fianco della sua moto in aperta campagna. Ansimando e barcollando vistosamente, rimontò in sella. Gli mancò la forza anche per mettere in moto, ma dopo un po’ di tentativi ce la fece, e ripartì alla volta del locale, per affogare tutto nell’alcool, che altro poteva fare?. Cento metri più in là, alle propaggini della foresta, Il Mietitore si godeva il suo operato. “Sempre più interessante, è riuscito a liberarsi dalla mia morsa. Si sa, la fiamma arde al suo massimo poco prima di spegnersi e in effetti penso che sia ora di chiudere le danze.”. Poi si voltò e si dissolse nella nebbia.

CAPITOLO V
La sera dopo Timothy stava pulendo stancamente il bancone del suo locale insolitamente vuoto. Quella mattina non era venuto nessuno, così aveva deciso di tenere il locale chiuso per tutto il resto della giornata così avrebbe potuto pulire il locale e dare un occhiata all'impianto elettrico di una delle due sale concerti in quanto le luci non funzionavano, nonostante non fossero bruciate. Mentre lo stanco barista passava un lercio straccio sul bancone, canticchiando la canzone che passavano alla radio, “Brothers of Metal” dei Manowar, sentì il campanello suonare. Timothy sbuffo, poi si avviò stancamente verso la porta. Andrea stava entrando nel suo locale; il centauro era sudato, lo guardava con occhi sbarrati, i capelli erano disordinati, il giubbotto sporco di sangue. Si diresse barcollando al bancone e si sedette su uno sgabello, chiedendo con un filo di voce della birra. Mentre gliene porgeva un boccale gli chiese come avesse fatto a conciarsi in tal modo e Andrea gli raccontò dell'accaduto. Alla fine del racconto il barista gli chiese, incredulo, quanto avesse bevuto. Andrea gli rispose che non aveva bevuto e che la figura incappucciata gli era sembrata un illusione, una sua visione, ma non sapeva come potessero essere stati decapitati. Timo scosse la testa, in quanto non gli sembrava possibile una cosa del genere e lo guardò negli occhi: il suo sguardo era vuoto, perso nel vuoto, come inebetito, Andrea era ormai pazzo, anche dal suo tono di voce lo si poteva dedurre; parlava balbettando e la fine di una frase era spesso difficile da sentire in quanto il tono di voce calava man mano che la proferiva. Il barista capì che al suo amico era successo qualcosa e che questo qualcosa lo aveva fatto impazzire, seppur completamente. Lo guardava sorseggiare la birra, ogni tanto farfugliava qualche parola che solo lui conosceva, dopo un po’ finì il boccale di birra e si alzò tenendo il capo chino. Il cupo mietitore era nascosto in una nicchia nel soffitto e, dopo aver ascoltato il dialogo tra i due pensò divertito tra se e se “Poveri stupidi, pensano che io non esista. Ebbene questa chiusura mentale li ucciderà entrambi.” E sghignazzo. Senza che Andrea e Timothy se ne accorgessero un pesante strato di nebbia molto fitta si alzò attorno al locale: la fine poteva iniziare, il mietitore aveva capito che il gioco doveva finire, prima o poi. Si sarebbe certamente divertito ancora un po’ , poi avrebbe ucciso le sue prede. Tutto sommato, fino ad ora si era solo divertito a tormentare il centauro. Dopo aver finito di pulire il bancone Timothy parlò al suo amico del problema nella sala concerti e andò a fare il controllo, Andrea si trascinò dietro di esso scrollando il capo e farfugliando qualche parola confusa ancora con il boccale, vuoto, in mano. Dopo qualche minuto erano alle prese con una miriade di fili rossi, blu, marroni, gialli e bianchi, Timothy non ci capiva molto così chiese ad Andrea se per caso ci capisse qualcosa di cavi elettrici ma gli rispose ironicamente che il positivo bisogna collegarlo con il negativo, era abbastanza lucido per farlo. Timothy trovò la scatola da aprire per vedere i collegamenti, fece per prendere un cacciavite dalla tasca ma si accorse di averlo dimenticato, quindi chiese ad Andrea di andarlo a prendere. Dopo pochi secondi lo sentì gridare “Hai chiuso tu la porta?”, Timothy non aveva collegato il concetto e così andò a vedere il motivo di quella domanda, ma una volta varcata la soglia della sala concerti gli caddero le braccia: il pesante portone tra la sala principale del locale e il corridoio era chiuso; il punto era che questo muro di metallo e legno massiccio non si poteva chiudere a chiave, ma si azionava un meccanismo che faceva scorrere al suo interno delle sbarre di metallo le quali si incastravano nei due battenti tenendoli chiusi insieme, ma la ruota da girare per far ciò era situata dall'altra parte del portone. Timo disse, assumendo un tono di voce disperato, arrabbiato e preoccupato “Questo portone non lp puoi aprire con un grimaldello e nemmeno con un flessibile, è apribile solo dall'atrio. Questo significa che siamo chiusi qua dentro, porca miseria, e non ci sono vie d'uscita. In poche parole, se non viene qualcuno con della dinamite per farlo saltare allora ci salviamo, altrimenti la vedo dura!” Poi brontolando si sedette per terra, appoggiando la schiena al muro; erano nei guai. Andrea si chiedeva come avesse fatto a chiudersi quel dannato portone, quando un brivido gli percorse la schiena facendolo rabbrividire, aveva uno strano presentimento, il suo sguardo si soffermò sull'entrata delle cantine, cosa ci sarà mai stato la dentro? Perché aveva quell'odore acre e perché aveva quell'aria così misteriosa? Guardando attentamente cominciò a scorgere qualcosa nell'oscurità, poi due bagliori rossi lampeggiarono nel buio. Andrea emise un urlo che gli morì in gola, poi prese il teschio più vicino e lo scagliò con tutta la sua forza addosso a quella sagoma. Timothy gli chiese brontolando che cosa stesse facendo e Andrea non fece tempo a finire la frase che si accorse che nella stanza non c'era nessuno, solo loro due intrappolati nel locale, senza via d'uscita, ignari della loro fine. Il mietitore si divertiva un mondo a guardare il teatrino che i due avevano imbastito, era proprio una comica per i suoi gusti. Poi si librò in volo e sparì dal corridoio, doveva mettere in atto il suo piano. Andrea chiese a Timo se potevano provare a far esplodere qualcosa presente nella cantina per creare un varco o qualcosa che ci assomigliasse nel portone, Timo rispose che non era mai entrato in quella cantina e che non aveva intenzione di farlo, oltre a non avere la chiave per aprire la grata, così Andrea prese il primo pezzo di ferro che trovò e lo infilò nella serratura, poi ne inserì un secondo e dopo qualche secondo la serratura di aprì, si girò per far vedere il suo risultato ma a pochi centimetri da lui trovò la testa di Timothy del Buono che fluttuava in aria, dal collo uscivano fiumi, torrenti, cascate di sangue e il corpo era sparito. Due metri dietro al macabro resto di Timo c'era il mietitore. Andrea con un impeto di eroismo prese la falce del manichino che aveva alla sua destra e si scagliò contro il mietitore urlando, ma questi mosse la sua falce, mozzandogli un dito. Andrea urlò, oramai ci aveva fatto l’abitudine, era tutto rosso in faccia, stava avendo una crisi di nervi, si lanciava continuamente contro il mietitore e questi lo respingeva ogni volta e ogni volta gli faceva un taglio, taglietto o graffio. Andrea decise di scappare nelle cantine, si lanciò verso la grata, la aprì, la oltrepassò e la richiuse con forza, poi scese i dieci gradini e il buio lo circondò. Ma Andrea sembrava un novello inventore, accese l'accendino e si stacco un pezzo della maglia, quindi gli diede fuoco e lo mise all'interno del boccale di birra che aveva ancora in mano, creando così una torcia d’emergenza. Si avviò alla cieca nelle cantine e quando si girò il mietitore era dietro di lui, così iniziò a correre, e, ad un tratto, trovò una porta di legno. Il mietitore incombeva su di lui, ma egli aprì la porta, la oltrepassò e la richiuse violentemente alle sue spalle. A nulla sarebbe ora valso qualunque tentativo di fuggire o nascondersi. Era l’inizio della fine, e il mietitore se lo sarebbe gustato.

CAPITOLO VI
Andrea non aveva benché la minima idea di dove fosse finito, si trovava in un tunnel nella nebbia, una strada in mezzo a un paesaggio sconosciuto, ai lati di essa vi erano due muri di nebbia fitta, davanti a lui l'ignoto destino. Il centauro decise di proseguire per la leggera salita e di vedere cosa fare, mentre camminava pensava all'accaduto, come poteva un'allucinazione aver ucciso il suo amico, ora si trovava tutto sporco di sangue, come poteva essere un allucinazione? Come poteva essere tutto ciò irreale e frutto della sua testa? Dopo un minuto giunse alla conclusione che tutto ciò era vero, e che la morte lo stava inseguendo e intraprese un monologo nel quale urlava la sua disperazione, non era così desideroso di morire, perché doveva morire, perché? Perché doveva essere perseguitato fino alla pazzia da quel bestio incappucciato? Aveva tante domande nella testa, provò a rispondervi quando vide un cancello di ferro,i pilastrini nei quali erano infissi i cardini erano immersi in quello strato impenetrabile di nebbia, ma le parti mobili si vedevano bene, erano di ferro battuto e non particolarmente fregiate, l’unica decorazione era un grande croce celtica, non vi era altro. Andrea lo guardò perplesso; cosa ci faceva un cancello in quel luogo dimenticato da Dio? Fece per voltarsi quando il cancello iniziò ad aprirsi, stupito Andrea lo oltrepassò e continuò a vagare senza meta per la stradina. Stava pensando che forse si sarebbe salvato quando il cancello alle sue spalle si chiuse, non si era accorto che si stava addentrando in una profonda fossa dalla quale non sarebbe più uscito. La trappola del mietitore aveva funzionato, aveva creato quella porta, aveva aperto lui il cancello per farlo andare nel suo regno. Stava salendo il leggero pendio con la falce sempre pronta, quando avvertì un rumore sinistro, subito si bloccò e si guardo attorno, ma niente. “Le orecchie m’ingannano a quanto pare” disse e riprese a seguire la stradina. Erano ormai venti minuti che camminava, quando scorse delle ombre enormi ai lati della strada. Man mano che si avvicinava diventavano sempre più nitide: erano statue. Dapprima apparvero due enormi e tetri angeli della morte magnificamente scolpiti nella pietra, che facevano da guardia a una specie di casetta, un bettola con una torretta senza finestre, dopo di essi vi erano due enormi gargoyle simili a quelli presenti a Notre Dame, Andrea li oltrepassò perplesso, poi si trovo fra altre due statue: due scheletri enormi con le braccia protese al cielo. Stava fissando il cancello che si trovava a una ventina di metri da lui quando avvertì un altro rumore. Da due statue raffiguranti un demone che mangiava le viscere di un umano stava prendendo vita l’affamato mostro, dalla bettola stava uscendo un demone che per millenni era stato conservato in una teca di cristallo e aveva molta fame, i pipistrelli si levavano a migliaia dagli alberi, il cancello del cimitero si aprì e apparve il mietitore, la falce gocciolante di sangue in un braccio e un corpo senza testa nell’altro, era il corpo di Timothy. Andrea lo guardò e capì che era cascato per l’ultima volta in una trappola, e ora avrebbe dovuto combattere. Il mietitore lanciò al demone nella teca il copro, e questi lo divorò in due soli bocconi; dopo il gustoso pranzetto si lanciò su Andrea, ma questi era pronto e gli mozzò un braccio, dopodiché provò a scindere la testa del demone dal resto del corpo, ma questo non si fece mutilare nuovamente, e schivò il fendente letale, quindi si rilanciò sulla vittima, però questa volta fu il mietitore a fermarlo; con un incantesimo lo catapultò dieci metri più indietro, e con una micidiale occhiata gli fece capire che doveva stare calmo, avrebbe mangiato dopo. Il mietitore intanto si avvicinava ad Andrea che ebbe un’altra crisi di nervi, si mise a urlare come un dannato, prima urlava al mietitore frasi senza senso e qualche secondo dopo piagnucolava frasi di perdono, preghiere, ma ciò durava secondi, perché poi riprendeva a urlare rabbiosamente. Il mietitore era felice di ciò, aveva conseguito alla perfezione il suo obiettivo. Quando fu a pochi centimetri Andrea provò a colpirlo, la falce lo trapassò ma egli rimase intero, qualsiasi fendente sarebbe andato a vuoto in un vano spreco di energie, così il mietitore roteò la sua arma e gli staccò una gamba. Andrea urlò e cadde a terra, uno spruzzo di sangue uscì dal moncone di gamba rimasto. Il mietitore lo rimise in posizione eretta, come se fosse il suo pupazzo, e vedendo che i primi accenni di svenimento si sbrigò a strappargli il braccio a morsi. Anche in questa occasione sgorgò un getto di sangue e ora Andrea era svenuto. Il mietitore lo fece librare in aria e con la falce lo colpì verticalmente scindendolo in due parti che caddero a terra con un tonfo in una pozza enorme di sangue rosso scuro, dopodiché l'insolito macellaio gli menò una serie ripetuta di colpi, ogni volta che la falce si infilava nella carne ne usciva un getto di sangue. Alla fine del corpo di Andrea Terni restavano un numero non contabile di piccoli pezzi rossi, il mantello del mietitore era ormai rosso, la falce pure, le statue erano sporche di sangue. Era un vero e proprio macello, sembrava fosse stata squartata una balena, l'erba e la terra erano impregnate dal sangue dell'unico umano che era entrato nel regno della morte. Il mietitore pulì tutto con un incantesimo, poi diede in pasto i brandelli del corpo di Andrea al demone della teca, infine guardò verso il cimitero, una nuova vittima era stata mietuta, la millenaria falce era nuovamente tinta di rosso, i desideri della morte erano stati esauditi, ma soprattutto si era divertito da morire. L’esperienza fatta è stata la più divertente mai fatta, aveva massacrato tre persone inutilmente. Aveva fatto la cosa che gli piaceva di più al mondo, uccidere. Ora si avviava verso il cimitero, doveva finire il rituale che nei millenni si è ripetuto per miliardi e miliardi di volte, e che non smetterà mai di ripetersi. Ogni tanto osservava la sua falce ancora sporca di rosso e, come per prendere in giro Andrea, iniziava a cantare “Paint it, Black” dei Rolling Stones. E terminava dicendo “No, Andrea, l’hai dipinta di rosso.

CAPITOLO VII
In una notte senza luna il mietitore avanzava fra le lapidi del suo cimitero, dove erano presenti un numero inimmaginabile di lapidi, gli alberelli spogli e scheletrici cresciuti tra le lapidi ospitavano cadaveri in putrefazione, scheletri, corvi intrepidi che però alla vista del padrone e becchino di tale luogo fuggivano, per aver salva la vita, in quel luogo dal quale l'uomo è bandito si stava per consumare l'ennesimo rituale. La figura ammantata avanzava, con aria lugubre e decisa, tra lapidi in stile gotico, nordico, con scritti nomi e nomi, tante storie diverse, un punto in comune: tutte quelle storie avevano la causa della loro fine in comune: il cupo mietitore. Giunto a uno spiazzo erboso vide quello che aveva scritto a caratteri ardenti qualche giorno prima: Andrea Terni. Sorrise, non si sarebbe mai più dimenticato quell'esperienza. “E così ho vinto ancora Andrea, miserabile umano, tutta la tua spavalderia dov'era di fronte a me? Dov'era finita tutta quella voglia per il rischio della morte eh? Ebbene questo dimostra la tua stupidità e falsità, ti facevi tanto vedere impavido e intrepido di fronte agli occhi stupidi e superficiali dei tuoi amici mortali, ma quando ti ho offerto l'occasione di far valere ciò che facevi vedere, non sei riuscito a far niente se non illuderti che fosse tutto falso, ebbene questa cecità ti ha ucciso, però devo dire che sei stato un giocattolo molto divertente, tutti gli altri duravano di media poche ore, tu sei durato qualche giorno, questo devo concedertelo, ma sei morto, è questo che conta, e ti sta bene, io non do una seconda possibilità, uno sbaglio è fatale, e il tuo sbaglio è stato fatale!” Dopodiché i suoi occhi divennero due tizzoni ardenti, due esplosioni di un minestrone di sentimenti controversi, la falce si librò in aria e la punta all'estremità inferiore del manico fu scagliata al terreno, in mezzo alla scritta Andrea terni, ci fu un’esplosione, dopodiché apparve una lapide ardente, una croce celtica con scritto Andrea Terni, 1967-2009 . Aveva finito questo caso, la notte dopo sarebbe passato a un altro, il portatrice della morte era pronto per uccidere ancora, ma il tempo dei giochi era finito, questa che si era concessa con Andrea era una frivolezza, ora avrebbe dovuto uccidere subito, ma sarebbe tornato a uccidere, magari chissà, con un altro membro della famiglia Terni, gli piaceva quel cognome, gli dava l'impressione di un meccanico, ebbene nel prossimo caso avrebbe ucciso anche un meccanico, tanto per ricordare questo epocale divertimento, un altro rettangolo fra le tombe lo aspettava qualche chilometro più avanti, in un'altra parte del cimitero, ora si avviava nella nebbia, i mostri avevano ripreso la loro forma in pietra, la normalità era ritornata, e un corvo nero appollaiato nel cancello del cimitero guardava il mietitore scomparire nella nebbia che invadeva quel luogo, lo vide per poco però, perché questi non amava essere spiato.

Ecco qua postato tutto il malloppo, che dire...come vi sembra il nostro primo racconto?
 
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thedoc
view post Posted on 8/2/2010, 20:56




Come incipit sembra interessante. Appena avrò un attimo finirò di leggerla.
Però hai sbagliato sezione. Te la sposto in Fanfiction Non DN.
 
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eddie
view post Posted on 8/2/2010, 21:09




ok grazie, scusatemi dell'errore ma ero molto di fretta( html che non voleva ascoltarmi)
 
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2 replies since 8/2/2010, 20:41   354 views
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