La regina della città abbandonata

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L_Vendect
view post Posted on 20/11/2009, 15:32




Come si dice? Ah sì, la vita fa schifo.
Ero stravaccata sul divano. Non c’era un cavolo in casa, niente. Neanche la più misera caramella. Che schifo.
Tanto per cambiare, il cielo era nuvoloso e nebbioso. Anche quello faceva piuttosto schifo. Infinitamente annoiata facevo zapping tra una sciocchezza e l’altra, leggendo brandelli di un thriller di cui ricordavo appena il titolo. Anche se avessi avuto problemi con gli affari scolastici, non mi sarei messa a farli in quel momento. L’orologio in salotto, di solito rumoroso, si era quietato. Per quanto fuori fosse freddo, la camera grigia sembrava chiudersi su di me, mi dava un senso di claustrofobia. Schifo. Avevo quattordici anni e la mia vita andava di già in malora.
Alla fine m’infilai gli stivali ed uscii, senza aspettarmi niente da quella giornata uggiosa. La strada era deserta, non passava neanche una macchina. Era un paese fantasma. Non capisco ancora perché certa gente preferisce il freddo! Quando fa freddo il mondo non esiste. Bene o male, volenti o nolenti, andiamo tutti in letargo. Diedi un calcio a una lattina, scoprendo che era ancora piena. « Ma porc…» sbottai scuotendo il piede fradicio. Alzai lo sguardo; ovviamente nessuno mi aveva visto.
“ Potrei morire qua e nessuno se ne accorgerebbe!” pensai ironica. Il fatto che non fossi una ragazza camaleonte avvalorava la mia tesi di mondo morto. Mondo morto… faceva uno strano effetto pensarlo. Abbandonai la via asfaltata finendo in aperta campagna, se campagna si poteva definire quella distesa di sassi ed erba. Ed era bella, talmente bella da togliere il fiato. Si protendeva sempre uguale, sterminata, fino al fiume vuoto; sugli argini era cresciuta un’erbetta soffice. Il letto, prosciugato da anni, era coperto di sassi grigi e lisci e da ghiaia. Anche lì alcune chiazze d’erba. Oltre il fiume in secca c’erano i vecchi stabilimenti industriali: un gioco di punte e camini che da lontano potevano apparire come le guglie di una cattedrale. Tecnicamente si poteva definire il nulla, inoltre nessuno era interessato ad andarci, ancor meno a demolirlo; per me era perfetto. Era mio. Benvenuti nel mio regno. Sono io, la Regina della città Abbandonata, oppure Dimenticata, non ricordo mai. Non ho sudditi, per cui non farà differenza, forestiero. Era anche il mio gioco preferito. Il mio alito si condensava in piccole nuvolette. Incrociai le braccia sul petto, per trattenere un po’ di calore. Il tempo era cambiato ancora: la luce attraversava la coltre di nubi appena sopra l’orizzonte, conferendo al cielo una luce giallastra e malaticcia. Sopra la mia testa il muro compatto di nuvole era diventato verdastro o quasi nero. Minaccioso sì, ma bello. Molto meglio di quel grigio freddo che rasentava l’apatia. “ C’è aria di tempesta”.
Con le dita intirizzite dal freddo spinsi il cancello malandato e rovinato dagli anni. La mia prima tappa era la torre per le comunicazioni (ovviamente ce n’era un’altra più moderna, vicina al paese). Una struttura enorme, alta almeno venti metri, rosa dalla pioggia, come tutto lì intorno, come me. L’inno perfetto al mio romanticismo piuttosto gotico e vuoto. Un romanticismo nato da un cinismo cattivo e un disperato bisogno di loro. Avevo bisogno delle loro carezze, delle loro braccia attorno alla vita. Avevo bisogno di sapere che tutto andava bene, che la scatola argentea con quelle due pistola meravigliose era lì per me. Svegliandomi, una mattina, scoprii che non c’erano più. Mancava pure la scatola con le pistole. Tacqui. Nessuno le aveva prese. Erano stati loro. Si erano portati via tutto il mio amore, ma esistevo ancora, strana, follemente disperata. Come potevo fare senza il loro aiuto? I miei si erano preoccupati quando ho smesso di mangiare. “ Ma gli M&M’s mi hanno stregato” risi tra me.
Attenta agli scalini cedevoli, misi un piede sulla scala ferrosa.
“ Devo proprio fare questa fatica? Magari mi prendo pure il tetano”
Non mi risposi e cominciai a salire, lentamente. Una vecchia canzone persa negli anni mi affiorò nella mente, mentre guardavo in alto. Era una delle canzoni del musical Notre-Dame de Paris, una delle cose per cui ero vissuta. « Danse mon Esmeralda, chante mon Esmeralda, laissez moi partir avec toi…»
Sentii una piccola fitta alla gamba, e feci una smorfia. Ripensai a Quasimodo, illuminato dai faretti rosso sangue, che prometteva all’amata un riposo eterno assieme a lui. Parole che non ho mai dimenticato. Non c’è quasi nulla capace di catturarmi come quattro parole messe in ordine, cantate con vero sentimento. Chissene frega del fatto che sono stonata come una campana; forse non lo sono neanche, ma nessuno si è mai premurato di dirmelo. Quando il dolore è stato insopportabile, ho gridato parole senza senso prese da melodie che neanche ricordo. Quei momenti di rabbia mi fecero contrarre i muscoli delle braccia; abbracciai la scaletta, a dieci metri d’altezza, e feci un respiro profondo.
Salire. Salire. Salire. Salire. Ta-ta-ta-ta. Ta-ta-ta-ta.
Perfino le mie scarpe che sbatacchiavano contro il metallo avevano un certo ritmo. Devo essere pazza. Spinsi la botola che portava alla “terrazza” in cima alla torre. Rimasi imbambolata, seduta sul bordo della botola, le gambe a penzoloni nel vuoto. Non ero sola. L’affermazione inizialmente non penetrò a fondo nella mia testa, ma poi compresi. Non ero più la regina della città abbandonata, non potevo fare ciò che volevo. “Perché?! Maledizione, perché qualcuno è venuto qui?!”
« Chi sei?» mormorai, fissando la nuca dell’Indescrivibile. Un battito di ciglia ed era scomparso. Tenendo una mano contro il corpo della torre, le girai intorno. Allargai le braccia, i palmi rivolti verso l’alto come un regnante benevolo. Lanciai il mio muto saluto alla città Abbandonata, dove le ciminiere sono le torri e le guglie delle cattedrali sono solo tralicci.
La vita fa sempre schifo.
Alzai la testa, beccandomi una goccia nell’occhio. Scivolò giù come una lacrima mai pianta. Altre sorelle la seguirono, rimbalzando sul metallo come proiettili. Con la pace e la calma di un fedele cominciai la discesa dalla scaletta. Solo che alzai la mano destra per chiudere la botola, mi tesi appena un po’ troppo, e i miei piedi persero la presa. La botola si chiuse con un tonfo, mentre io filavo verso terra a velocità disarmante. Che schifo. Non avevo mai avuto intenzione di suicidarmi, fino ad allora. Finire la mia vita quando meno me lo aspettavo.
« Mi spiace, ho altri programmi per la serata» allungai le mani e, incredibilmente, riuscii ad afferrare la scala. Tanto per cambiare sbattei testa e gambe contro il metallo. Perché non faceva male? Il male era un’alternativa piacevole all’apatia. Tremante, scesi gli scalini (pochi) che mancavano per toccare il terreno con i piedi.
“ Ok, sono qui. Che cosa faccio adesso?”
Di rimanere lì neanche se ne parlava: la città Abbandonata non era fatta per viverci. Assolutamente. Decisa, feci dietrofront e mi allontanai dalle fabbriche. Chiusi con cura il cancello, guadai il fiume e tornai nelle distese vuote della campagna. Solo una volta mi guardai indietro; dalla torre l’indescrivibile mi guardava. Non feci nemmeno un cenno, non avevo motivo di tornare indietro. Sarebbe scomparso all’alba comunque. E il cielo era tornato grigio. Perché nessuno riesce a credere davvero che il mondo fa schifo?
Loro erano scappati, avviluppati nelle ombre della notte. E io sono rimasta sola.
« Dicevi sul serio?» Quella voce antica, misteriosa e familiare, danzò a lungo in me. Non c’è mai fine al baratro?
« Mangez mon corps, buvez mon sang, vautours de Montfaucon…» Un verso perfetto. Tutto muore, anche il corpo, l’anima probabilmente lo accompagnerà, ma niente ucciderà la volontà. “Ragazzina, sei forse Emo? Depressa? Sicura? Fai certi pensieri!” sorrisi a me stessa. “Certo che no, io voglio vivere. È la semplice verità. La Regina della città Dimenticata ha un suo impegno. Non amo niente, e con ciò? Non sono un essere umano?” Chiarire quelle cose mi riempì di gioia, anzi no, di un cupo compiacimento. “ Perché non mi insegni a ballare il tango? « Ma sei matta!» Ti prego… mi prese per mano e mi insegnò a ballare. Ogni notte volevo farlo. Tango. E poi… è scappato.” Avevo messo via il vestito da tango, nel più profondo recesso dell’armadio e contemporaneamente, del mio cuore. Ne ero ancora capace, almeno? Ci provai. Piegai le braccia come se stringessi qualcuno.
Un piede davanti all’altro. Ta-ta-ta-ta. Feci una piroetta, allargando le braccia. Persi l’equilibrio e caddi per terra. Era già ora di tornare a casa. Pensai a cosa sarebbe successo se fossi rimasta ferita, o ancor meglio uccisa nella caduta dalla torre. Quando avrebbero trovato il mio corpo? Lo avrebbero trovato almeno? Mi sbagliavo: la morte è affascinante, se ti prende ha braccetto. C’è solo da sperare che non intenda portarti subito da lei.
Guardavo in su, respirando piano. Mi immaginavo la voce di mia madre: « Dove sei stata? Eravamo in pensiero per te!» Quando mai? A malincuore, mi rialzai.
« Eccomi, sono qua… sono la Regina dell’Abbandonata città» canticchiai.
Passai davanti alla casa di Rubens, ma non guardai neppure dentro. Non ci parlavamo più da mesi, nonostante i miei tentativi di contattarlo. Aveva fatto vacue promesse svanite come sabbia al vento. Peggio per lui: non capita tutti i giorni d’incontrare una Regina. Come mi aspettavo, mia madre era già tornata; guardava fuori dalla finestra, aspettando il mio arrivo.
« Oggi hanno telefonato dalla scuola. Dicono che ti sei iscritta alle Olimpiadi di matematica!» sprizzava gioia da tutti i pori; è così facile con mia madre. Lei vuole solo che io stia bene. Mi mise una mano sulla spalla in un gesto di affetto.
« Sono così contenta che tu ti sia rifatta una vita» sospirò. Giuro che avevo provato a farmi divorare dal dolore, ma sopravvivere con la morte nel cuore non mi era riuscito. Perciò sorrisi. Non aveva nemmeno idea di quanta ragione avesse.
Dopo cena salii in camera. Era sempre un momento difficile. Un po’ perché la mia camera era insulsa, un po’ perché sarei stata sola. M’infilai in tutta fretta sotto le coperte, rannicchiata in posizione fetale. Finalmente potei riflettere in tutta calma. Desideravo tornare in città.
“ Lo farai. Scapperai, per regnare come è tuo dovere.”
« Dovere e piacere…» Strinsi le lenzuola e mi addormentai.

Suonavo il pianoforte, una volta. Provarci ancora è un’abitudine che non ho mai perso. Quella mattina mi aveva colto il desiderio di salire nella soffitta polverosa a suonare un po’. La luce del sole illuminava i granelli fluttuanti di polvere, e dipingeva l’abbaino di color crema. Andavo a orecchio, già da tempo avevo compreso di non avere talento per il comporre. Pigiavo quei quattro tasti, inframmezzati da lunghe e brevi pause che davano all’intera composizione un che di malinconico. Io non ero mai triste. Forse arrendevole, delusa, incazzata con il mondo, ma mai triste. Quella musica era solo l’eco frusciante di un sentimento più atroce. L’odio. Mi era impossibile allontanarlo, in qualunque modo avessi provato. Ogni nota si trasformava in fugaci fotogrammi. Una donna impiccata, vestita di quella stessa luce. Una ragazza seduta a guardare il vuoto lasciato dalle sue pistole. Qualche ciocca di capelli che scivola da dietro le orecchie. Non pensare al futuro. Un vetro che si infrange. I miei piedi si contorsero sul pavimento gelato.
« Se soffierò sulle mie mani, farò apparire un’opera d’arte?» risi a mezza voce. L’ultima nota si spense con un tremolio nell’aria.
Daccapo.
Era troppo… stentata per assomigliare ad una ninnananna, anche se l’intento iniziale era quello. Quattro note. Mi stufai, e lasciai stare. Che mi era preso? Un impulso romantico del genere non lo avevo mai provato. Gettai un’occhiata fuori dalla finestra, neanche attendessi chissà che. In quel mentre il telefono cominciò a squillare.
Scesi le scale di corsa e risposi con il fiatone.
« Pronto?»
« Buongiorno, sono Clara. Volevamo sottoporla ad un piccolo sondaggio…»
« Mi dispiace, non ho tempo.»
Ed era la verità.
Con più tranquillità, rifeci il percorso inverso. Però, seduta davanti al piccolo pianoforte della mia infanzia, riflettei. Mi sentivo una di quelle eroine tutto cuore e lacrime, dal visetto puro come un angelo, che stringevo appassionatamente gli aitanti eroi tra le fragili braccia. La semplice verità era che mi ero svegliata svuotata. Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. Elettrizzata, balzai in piedi, quasi all’attenti, e per la seconda volta mi fiondai giù per le scale, abbandonando la poesia infantile dell’amore classico.
Mi truccai un po’, giusto quanto bastava per apparire serena e sicura di me. Un velo di lucidalabbra color pesca, un filo di matita blu. Mi pettinai lentamente, districando con cura ogni singolo nodo, trattai i miei capelli come fili di seta dall’immenso valore. Davanti allo specchio ero la Regina Cattiva di Biancaneve, orgogliosa e crudele. Appena schivavo il mio stesso sguardo ero soltanto un essere umano, e mi sarebbe anche andato bene, se non fossi stata una foglia in balia del vento e dell’acqua, sospesa tra sferzate gelide e soavi carezze. Quella mattina io non mi trovavo più. Chiusi lentamente la porta alle mie spalle e m’incamminai, nella strada vuota.
Il tempo non era assolutamente migliorato durante la notte, anzi, l’asfalto era umido e alcune pozzanghere riflettevano il cielo grigio. Chiusi la zip del giubbotto e mi affrettai a infilarmi in un vicolo vuoto. Mi chinai e spostai un bidone, svelando un passaggio rotondo. Mi ci infilai e sbucai, i capelli coperti di ragnatele, dall’altra parte del muro. Armata di un frammento di specchio, mi ripulii diligentemente. Ributtai il vetro per terra. Allungai il passo fino a correre, quasi. Dovevo andarmene prima che…
« Aspetta!» Troppo tardi. M’irrigidii un attimo, poi ricominciai a camminare come niente fosse, fingendo di star solo facendo una passeggiata. Il richiamo si ripetè un paio di volte, sempre più flebile; o almeno, così parve alle mie orecchie. Dopo poco l’unico suono fu quello dei sassi sotto le mie scarpe. Ad un certo punto mi fermai: ero nel bel mezzo del letto prosciugato del fiume. Qualcosa non andava. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa, un pericolo, ma non c’era niente. Atterrita, mi sentii allo scoperto, e corsi via. Risalii di corsa l’altro argine, aiutandomi con le mani. Rimasi senza fiato. “ Il cancello…non è possibile”. Non riuscii a muovermi per andare a controllare; il cancello era aperto. Io lo chiudevo sempre. Fin da dove mi trovavo, vedevo il metallo riflettere debolmente la luce del sole, teso verso l’interno della Città. Il mio regno mi parve un animale pronto a ingurgitare chiunque vi si fosse addentrato. C’era anche dell’altro che mi impediva di proseguire: mani e braccia fantasma mi trattenevo dal correre a cercare un’ascia con la quale spaccare il cranio dell’intruso.
“ Giuro che non farò niente di avventato” sospirai mentalmente, e sentii i nodi sciogliersi. In un muto cenno di approvazione, qualcuno mi accarezzò una guancia. Fu un tocco lieve, quasi confondibile con un soffio di vento.
« Se… se prometto di non tornare più qui, verrete da me?» dissi, avvicinandomi all’entrata profanata della Città. « Quando avrò la forza di non entrare mai più qui, verrete?» A testa alta, entrai nella Città Abbandonata. Come il giorno prima, e quello prima ancora, come avevo fatto per mesi, salii sulla torre e feci scorrere lo sguardo sul mio regno, così desolato. La regina Stria I vi deve lasciare, tesorini. Non è divertente, il fatto che mi stava uccidendo vivere con te? No? Immaginate che io posi la corona ai miei piedi, e con un calcio la spinga giù. Ascoltate l’eco del mio rifiuto, il tonfo della mia maestà spegnersi sul cemento. « Con questo gesto io abdico» dissi, sorridendo mesta. Una foglia mi passò davanti al naso, e volteggiò verso l’alto. La strinsi e la sbriciolai.
Presi fiato. Era giunta l’ora.
Scesi con calma la scaletta, assaporando ogni rumore, ogni contatto con il metallo. Mi sentivo come un’amante infilatasi in un letto. Nel bene o nel male, quella città era mia di diritto, ma mi faceva impazzire. Letteralmente.



“Come si dice? Ah sì, la vita fa schifo.”











Illegale

Halloween. La notte delle streghe. Sebbene fossi sempre stata piuttosto scettica sulla veridicità delle leggende nate attorno a questa festività, mi aveva sempre attratto, come tutto ciò che è inquietante e gotico. Purtroppo gli altri non condividevano il mio parere e la ignoravano bellamente, oppure, più semplicemente, avevano altre compagnie con le quali divertirsi.
Era un possibile motivo per cui stavo correndo, di notte, in mezzo ad una prateria. Avevo il fiatone, ma non riuscivo a fermarmi. In un angolo della mia testa la ragione ribadì che probabilmente era tutta immaginazione, che se avessi voluto avrei potuto fermarmi. E anche se lo era, a me interessava poco o niente. Volevo andare avanti, era necessario, perché se mi fosse fermata mi avrebbero catturata.
“ Eccone uno” venne verso di me acquattato, quasi invisibile nell’oscurità. Alzai la gamba e gli diedi, semplicemente, un calcio. Gemette in modo pietoso e rimase immobile. Ero stupefatta ed eccitata: era fantastico avere così tanta forza nelle gambe. Correvo veloce come la luce. troppo veloce, accidenti. Stavo per spezzarmi.
« Aiuto!» urlai e mi risvegliai in casa mia, sul divano. Ero stanca e sudata, un mix di assoluta sensualità.
“ Basta droga” ridacchiai mentre mi dirigevo a prendere un bicchiere d’acqua. Più che altro avrei potuto essere in crisi d’astinenza. Bevetti in piedi nella cucina buia, riflettendo sulla tristezza della mia condizione, ridotta a ballare sull’orlo della pazzia.
La luna fece capolino da dietro le nuvole, e illuminò la stanza di un delicato colore perlaceo. Tutto sembrava immobile e incolore come una vecchia fotografia. Nell’assoluto silenzio che seguì, sentii dei passi arrivare alle mie spalle, ma rimasi lì dov’ero.
« C’è nessuno?»
Un respiro, vicino al mio orecchio.
« Non ti muovere» disse; mi prese in braccio, senza alcuno sforzo, e mi ridistese sul divano. Riuscivo a vedere solo la sua figura in controluce, il cuore batteva così forte da darmi fastidio. Me lo sarei cavato via dal petto, se avessi potuto.
« Mi piacerebbe che la smettesse di battere così» sospirai silenziosamente. La sua mano mi accarezzò i capelli, poi il viso, e si fermò appena sopra lo sterno. Avrei voluto sentire la sua voce, invece rimase in silenzio. Certo,era un silenzio leggero, con lui che giocherellava con una ciocca dei miei capelli, ma pur sempre silenzio era. La mia espressione restò impenetrabile, fino a quando non mi accorsi di un paio di lacrime in bilico tra le ciglia. A tentoni riuscii a prenderlo per mano.
« Gli altri… vorrebbero tornare assieme a me.» disse, tentennante. Come se io li avessi cacciati volontariamente. Non ne sarebbe mai valsa la pena. Resistetti alla tentazione di stringerlo per i vestiti.
« Perché non lo fanno?»
Un momento di silenzio.
« C’è un problema. Sono venuto qui contro la loro volontà. Ammetto che tengo a te, alla tua vita molto meno rispetto agli altri. Sappilo. Tu non sai cosa sta succedendo; forse è meglio così. Per questo, vorrei che tu tornassi in Città, se ti rende felice. Credo che non ci vedremo per lungo tempo, forse mai più.»
« Davvero? Lo dici sul serio?» dissi, praticamente senza fiato. Lo sentii alzarsi, e accendere la luce.
Sbattei le palpebre, stordita dall’improvviso cambiamento di luminosità. Si era girato vero la finestra, dandomi le spalle.
« Sì. Ti prego, non essere offesa.»
Abbassai la testa. Cosa potevo dirgli? Accettare la sua offerta senza compromessi l’avrebbe fatto infuriare di sicuro. Ignorarlo significava sfidare la sorte. La luna era appena stata coperta da una nuvola.
Mi rimisi a sedere, con i capelli davanti agli occhi come una cortina. Li ricacciai indietro con un gesto stizzito, tentando di controllare il tremore alle mani. Lo guardai di sottecchi e mi alzai. Senza badare alla sua reazione, gli avvolsi le braccia attorno alla vita, e appoggiai l’orecchio sulla schiena; avvertii distintamente l’assenza di battito. Si dimenò, sorpreso da quell’attacco improvviso.
« Lasciami andare! Cosa stai facendo?» Prima che me ne accorgessi, si era divincolato e continuava a guardarmi impassibile. Stavo per chiedergli scusa, quando un sasso mandò in frantumi il vetro e lo colpì alla tempia; uno schizzo di sangue macchiò il pavimento e la mia faccia. Sconvolta, mi coprii la bocca con una mano, ma con l’altra presi il fazzoletto pulito e mi avvicinai a lui, che era caduto in ginocchio, una mano premuta contro la tempia sanguinante.
« Stai bene?» chiesi. Lui annuì senza parlare né guardarmi. Allungò la mano stranamente femminile e si prese il fazzoletto, prepotente. Lo premette con forza contro la ferita; lo vidi stringere i denti e sbattere in fretta le palpebre per non lasciar trasbordare le lacrime.
Si alzò, barcollante, e fece qualche passo in direzione della finestra. Io rimasi inginocchiata come una stupida, salvo poi alzarmi di botto. Lo trattenni per un braccio il più rudemente possibile.
« Dove credi di andare? Se perlomeno ti fasciassi, sarei più tranquilla. Siediti e aspetta. Ho delle bende in cucina.» Lo condussi verso il divano e lo feci sedere. Non incontrai resistenza.
Corsi in cucina a rovistare nel cassetto in cui tenevamo le medicine di primo soccorso, dei cerotti e delle bende. Sorrisi nel trovarle e le raccolsi. Per precauzione afferrai anche dei cerotti e una bottiglietta di acqua ossigenata. Tornai in fretta in salotto.
« Scusa se ci ho messo tanto, non riuscivo a trovar…» Alzai lo sguardo e osservai impietrita ciò che stava succedendo, senza muovere un dito. Furono pochi secondi. Il fazzoletto cadde dalla sua mano inerte e finì sul pavimento già macchiato. Con un basso gemito si piegò in avanti, e scivolò a terra a peso morto. Lasciai cadere tutto tranne e andai verso di lui; non aveva fatto in tempo ad accorgersi che ero lì. La luna fece di nuovo capolino, illuminando la ferita in tutto il suo squallore. Resistetti all’impulso di vomitare e mi chinai accanto a lui. Lo stesi sul divano chiaro, e osservai orripilata il rosso vivido del sangue sul lato sinistro del volto, a cui faceva da contrasto il pallore mortale del resto del viso. Anche le labbra sembravano cineree; sperai che fosse solo la luce evanescente della luna a darmi quell’impressione. Lo presi per le spalle e lo scossi molto poco elegantemente. Non ci fu risposta. Mi tirai i capelli, tentando di combattere contro la disperazione.
Appoggiai una mano sul suo ventre piatto; sospirai di sollievo nel sentire il movimento leggero del suo respiro, ma nonostante tutto mi sentii eccitata nel poterlo toccare ancora. Impacciata come una bambina lo accarezzai, spostando la mano verso il centro del petto.
Quando si posò sopra il suo cuore, rabbrividii nel sentire di nuovo quell’assenza di battito.
« Ma che sto facendo?! Lo uccido se continuo così!»
Presi tutta la roba caduta e la portai accanto al divano; mi sentivo come un chirurgo che si prepara ad operare su un paziente. Versai un po’ di acqua ossigenata direttamente sul taglio. In pochissimi secondi si ricoprì di schiuma bianca. Bene, aveva fatto effetto. Con più delicatezza possibile, gli avvolsi le bende attorno alla testa, tentando di fare in modo che le mie mani non tremassero troppo.
Dopodichè rimasi lì, con le mani in grembo, senza sapere che altro fare.
L’idea di chiamare la polizia, o almeno un’ambulanza, non mi sfiorò nemmeno. Era impossibile curare qualcuno che non esisteva.
Urtai la sua gamba con il gomito, e sentii il tonfo secco di un telefonino che cadeva. Lo presi e scorsi la lista dei contatti. C’era il mio numero. Rimasi senza fiato; le lacrime che ero riuscita a trattenere coraggiosamente scesero lungo le mie guance e cominciai a singhiozzare senza ritegno.
Riversai in quelle lacrime tutta la disperazione, la rabbia inconscia che avevo provato senza accorgermene fino a quel momento.
 
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